“Si tratta di una donna comune. Come me. Come voi. Eppure guardandola e toccandola, nell’attimo sfuggevole di una carezza reciproca, io ho sentito tutta l’energia. Tutta la bellezza. Tutta la cura di quel luogo. Ho sentito la forza e la dedizione che sono servite per costruirlo. E in pochi secondi quella donna è diventata per me, un simbolo del simbolo. Mi ha ricordato che noi donne siamo creature potenti. Uniche nel proprio genere. Esseri in grado di smuovere le montagne. Di ispirare la grandezza. E di essere ricordate nei secoli”.
A scrivere queste parole è Anna Chiara Rubino, 27 anni, fotoreporter, che ha creato il progetto “Io parto sola“: il suo viaggio in solitaria nel Sud Est Asiatico. A dirla così penserete che sia una travel blogger, e quella definizione porterebbe confini che mal si attagliano ad Anna. Basta uno sguardo ai suoi social media per capire che la sua è una narrazione differente: rispettosa, intima, emotiva e allo stesso tempo estremamente competente. “Io parto sola” è un percorso emotivo, culturale, geografico ed intimo di una giovane donna che all’improvviso, nel pieno della sua carriera, dopo duri sacrifici per la sua laurea e il suo diploma alla prestigiosa scuola di fotografia Bauer di Milano, sceglie di mettere tutto nello zaino e partire. Destinazione Bali, da lì lungo il Sud Est Asiatico verso l’India. Sola, armata della sua macchina fotografica e della sua penna, Anna restituisce a noi una narrazione emozionale e culturale che si arricchisce giorno per giorno di significati ed esperienze. Lavora nel territorio ricercando le storie più autentiche, le narrazioni più nascoste dei luoghi che visita, in un’avvincente viaggio che ha già conquistato il web. Storie di donne, di uomini, di bambini, di luoghi sconosciuti e di leggende dimenticate, questo e tanto altro è “Io parto sola”. Parlare con lei richiederebbe giorni, anni, ma per Lesbica Moderna ho deciso di focalizzare l’intervista su alcuni temi specifici. Se volete sapere di più di lei, vi basterà seguirla su instagram o Facebook, cercate: Io parto sola. Troverete lei e i suoi mille mondi.
L’intervista
Quali sono le tue difficoltà viaggiando da sola nei Paesi che hai visitato?
Io lo dico sempre. Tutti possono girare il mondo ma non è cosa per tutti. Questo tutti include entrambi i sessi, ma quando si parla di donne il discorso è leggermente più complicato. Tutto ciò che riguarda la donna in sé è più complicato, se poi si parla di donne che viaggiano da sole figuriamoci, apriti cielo: fisicità differenti, gradi di emotività differenti, metodi ed approcci differenti. Senza contare ovviamente l’imprescindibile elemento sessuale che da sempre e per sempre condiziona e condizionerà non solo il rapporto tra uomo e donna ma anche l’evolversi e lo svilupparsi di un’azione tanto naturale e semplice quanto può essere quella di viaggiare.
Mi spiego. Per come siamo cresciuti, per come ci siamo evoluti e sviluppati, la donna è e sarà sempre preda. E, in molte culture, anche un oggetto sessuale. Da questo deduciamo che un uomo potrà girare il mondo come gli pare, mentre una donna dovrà sempre prendere delle accortezze. Accortezze che variano dal modo di vestire a quello di porsi o di relazionare. O ancora da che mezzo è meglio prendere o da quale orario è meglio per viaggiare sola. Ci tengo a specificare che parlo di situazioni che ho visto. Di discorsi in cui mi sono immersa. Di menti pervase dalla paranoia e dal senso di colpa per avere le tette grandi in Asia, che ho cercato di placare.
Beh lasciatemi dire che credo davvero che tutto questo nel XXI secolo sia imbarazzante! E lo dico da donna che è nel mondo da 390 giorni a vivere ogni tipo di esperienza senza farsi fermare dal suo sesso. C’è chi mi dice spesso: “Ma non hai paura? Certo che per una ragazza dev’essere difficile!”.
E tutte queste frasi che, certo ci sta che le si pensi, per un attimo; ma che dovrebbero lasciare spazio subito dopo ad una consapevolezza schiacciante ed illuminante, quella di una realtà in cui siamo consci che considerazioni del genere derivano direttamente da quel modello, alle volte anche parecchio stereotipato, che la società ci ha imposto per anni. Un modello che vede la donna in certe vesti, con certi ruoli.
Per rispondere alla tua domanda, la mia difficoltà principale è stata il pregiudizio. Il pregiudizio nei confronti di me viaggiatrice, ma soprattutto nei confronti di me donna. Ovviamente limitarci a parlare della società italiana sarebbe davvero riduttivo, soprattutto perché, per quanto riguarda l’ambito travel, negli ultimi anni, si è sviluppata una certa tolleranza, quasi accettazione. Non è più quella cosa assurda di un tempo ecco. Ma c’è da dire che in altri paesi, ed io sono stata a contatto con ogni tipo di cultura e popolazione, in Asia ad esempio, i problemi ci sono stati eccome, interrompendo magari anche esperienze meravigliose, o facendo in modo che quelle oscillassero di continuo dal meraviglioso al terribile.
In che modo è successo?
Della cultura musulmana ad esempio ho visto facce differenti.
Facce stupende, sorrisi indimenticabili, e facce cattive che mi hanno fatta sentire profondamente a disagio ed esclusa. L’Islam poi è di per sé una cultura facilmente soggetta al giudizio. Ma diciamoci la verità: per noi occidentali lo è qualsiasi cultura differente dalla nostra. Tant’è che i problemi ci sono stati anche con gli Hindù, soprattutto in zone dell’India del nord, in cui la figura dello straniero non viene vista bene come al sud.
Tutto questo per dire che l’incomprensibilità dei motivi per cui una donna decide di viaggiare da sola è un sentimento condiviso da più culture. In più Paesi. Da tantissime persone di nazionalità ed origine differente. Non lo capiscono. E di conseguenza non lo accettato. E di conseguenza ulteriore, la giudicano. Il giudizio è una diretta conseguenza della confusione, della mancata chiarezza. Esso nasce sempre da qualcosa che non si è ben capito a fondo. Perché quando una cosa la capisci, anche se non la condividi, non la giudichi. L’hai capita e tanto basta anche se poi tu non la faresti mai, anche se ti comporteresti in maniera totalmente differente. Invece, in questo caso, anzi è giusto dire in alcuni casi e specificare che qui non stiamo generalizzando, c’è proprio un meccanismo che non scatta, c’è un passaggio che sfugge e quindi si arriva subito alla conclusione: “è sbagliato, non va bene, non si fa”. Mentre tu invece sei lì che vorresti urlare “Certo è giusto, va bene, e si fa eccome!”.
Come hai trovato la condizione delle donne nei Paesi in cui sei stata? E com’è stato per te approcciarti a quelle culture?
Beh la condizione della donna in Asia diciamo che è sicuramente subordinata a quella dell’uomo, la vedi che è un gradino sotto. Ho trovato Paesi che condividono un tentativo di evolversi e svilupparsi da questo punto di vista molto forte, come il Vietnam ad esempio. Molte donne nelle grandi città non solo studiano, ma spesso si trasferiscono da molto lontano per frequentare classi di inglese o master con opportunità di sbocchi più internazionali. Ho incontrato donne vietnamite e thailandesi in viaggio, si vede che parliamo di nazioni più ricche in cui se nasci e cresci con una piccola possibilità di evolverti, cavolo la cogli e basta!
Mi viene in mente la bella Linh, che ho incontrato a Bali mentre frequentava un corso di yoga contro il volere della sua famiglia. Mi sono rivista adolescente a dare ai miei la notizia che dopo il liceo mi sarei trasferita a Milano e che come sogno di vita e sbocco di carriera avevo scelto la fotografia. Na’ tragedia!
Paradossalmente ho ritrovato, se pur in minima parte, delle similitudini con la mia situazione, proprio qui dall’altra parte del mondo. Insomma io sono nata e cresciuta al sud Italia, immersa in una cultura e inserita in una società risaputamente patriarcale, in cui ti insegnano presto che visto che
“Sei femmina” ci sono dei limiti.
Ecco la donna in Asia viene vista un po’ come al Sud o comunque al Sud dei tempi antichi, quando la figura femminile era considerata un po’ come l’angelo del focolare domestico: madre e moglie premurosa.
In ogni caso qui la condizione delle donne varia di luogo in luogo.
Come ti accennavo, io sono stata a contatto con culture differenti, alcune più liberali, altre decisamente più estreme.
Sempre parlando di Islam ad esempio. Ho visto situazioni in cui le piccole vengono forzate ad indossare l’hijab fin da bambine, altre in cui vengono lasciate libere di scegliere. Mi viene in mente una cara amica conosciuta a Giava, padre musulmano indonesiano e madre cattolica olandese. Dewi è stata lasciata libera di scegliere. Volevano che si sentisse sicura e a suo agio con il colore della sua pelle e con la sua cultura mista e lei alla fine ha scelto, e solo a 20 anni ha messo il suo primo hijab. “Io scelgo di essere musulmana” ha detto. È stata un’eccezione che mi ha colpito. Un caso che mi ha portata lontana per un attimo da tutti i dettami che la devozione più pura alle volte comporta.
Approcciarmi a queste culture, dal punto di vista professionale è stato incredibile. Ma come donna invece, è capitato di sentirmi priva della serenità di essere me e della naturalezza di avere dei bisogni, emotivi ma anche biologici. Esempio pratico: se hai le mestruazioni a Bali nei templi non entri, e la cosa a quel tempo mi fece stare molto male.
Ero appena arrivata in Asia ed essere accolta così era stato traumatico.
Ma passato il momento di dispiacere e di tristezza per una cosa che non capivo e per cui sentivo di essere arrabbiata mi sono detta “ Io sono l’ospite, non la padrona, non lo capisco ma lo accetto”. E questo concetto ancora una volta è alla base di tutto. Penso spesso al fatto che se uscissimo tutti un po’ di più dalla bolla patinata in cui viviamo, piena dei privilegi con cui siamo cresciuti e degli oggetti di cui ci siamo circondati, lo capiremmo prima e vivremmo decisamente meglio. Saremmo Più informati. Più consapevoli.
Più Rispettosi. Saremmo più umani.
Quali sono state le situazioni più difficili in questi Paesi che hai elencato e come le hai affrontate? Che cos’hai fatto concretamente?
Mi vengono in mente due episodi in particolare: Est Giava, Indonesia.
Accerchiata ed aggredita da un gruppo di musulmani che a forza volevano trascinarmi sul loro pulmino. Mi strattonavano, mi tiravano lo zaino, volevano i soldi, volevano me. Ero in viaggio da poco più di un mese mi sono dimenata come una furia e sono scappata. Piangevo. Non sapevo come superarla. Non ho viaggiato per giorni.
Adesso, a distanza di un anno esatto l’esperienza più brutta resta l’attraversamento del confine India-Nepal, non perché sia un confine pericoloso ma perché ho affrontato tutta una serie di vicissitudini che hanno scatenato tutta una serie di eventi che inevitabilmente hanno trasformato l’esperienza in un incubo. Nonostante in quel momento fossi con mio fratello, che per un breve periodo mi aveva raggiunto in viaggio, ad oggi resta il trauma più grande del mio anno in Asia.
Innanzitutto il fatto che lui fosse con me, se non da un punto di vista di supporto emotivo, non ha giovato. L’Uttar Pradesh è la regione dell’India in cui come donna ho avuto più difficoltà. Una regione parecchio chiusa mentalmente e in cui il sessismo è diffusissimo. Se eravamo noi due, nessuno parlava mai con me. Parlavano sempre con lui.
Nonostante fossi io a parlare inglese, nonostante fossi io a gestire i soldi. Si rivolgevano sempre a lui.
Nel caso specifico del confine, siamo stati cacciati dalla guesthouse che avevo prepagato giorni prima nei pressi del border, perché non eravamo indiani. Il gestore non voleva parlare con me perché donna. E niente: mi ha messo le mani addosso. Non mi ero mai sentita così rifiutata umiliata e disprezzata in vita mia. Un trauma che ancora oggi mi fa soffrire. Un’esperienza orrenda che per la prima volta mi ha fatto desiderare di tornare a casa. Ma non perché non mi sentissi in grado di sopportare l’accaduto, ma perché quell’atto mi ha ferito. Ha colpito la mia indole di donna.
Hai conosciuto persone lgbtq nel tuo viaggio? Ti è capitato di poter osservare la condizione in cui vive la comunità lgbtq nei Paesi visitati?
Sì, mi è capitato. Mi viene in mente la Thailandia perché è stata l’esperienza più forte che ho vissuto da questo punto di vista, anche perché è l’unica nazione in cui c’è un po’ più di libertà. Paradossalmente – perché poi non è vero – il Sud è un po’ più chiuso da questo punto di vista, il Nord è un po’ più liberale e portato all’accettazione.
Ho conosciuto alcuni ragazzi durante uno spettacolo di Lady Boys a Chiang Mai, parlando con loro ho scoperto che molti vivevano una doppia vita. “La mia famiglia non accetta la mia condizione, così appena posso scappo in città, poi torno e nascondo le piume e i lustrini”. Ho conosciuto persone lgbtq, ma devo essere sincera, per la stragrande maggioranza viaggiatori come me, non autoctoni. Credo che il concetto di coming out non esista e che sia ancora un grande tabù.
Come proseguirà il tuo viaggio? Dove e che progetti hai in corso?
Sto per tornare in India per tre/quattro mesi. Ahimè devo dire che c’è un biglietto di ritorno per l’Europa, non per l’Italia. Saranno mesi di lavoro intenso: c’è l’Holi Festival; sarò fotografa ad un matrimonio indiano nel Nord dell’India, al Punjab; volontaria in un orfanotrofio sull’Himalaya. Poi mi è stato proposto da un ristorante di fare una piccola masterclass per la produzione di contenuti web focalizzati sulla realizzazione di storie su instagram, storytelling emozionale. Insomma, diciamo che il mio viaggio alla scoperta culturale dell’India, è terminato. Ora c’è lavoro lavoro lavoro. Un lavoro che sicuramente come sempre mi sconvolgerà e risucchierà a tal punto da rendere ogni avventura indimenticabile.
Leave a Reply