Jill Ellis è una leggenda per chi conosce il mondo del calcio. Allenatrice della nazionale statunitense, è riuscita a portare la squadra americana alla vittoria di ben due mondiali consecutivi: 2015 e 2019. Un risultato raggiunto solo dall’italiano Vittorio Pozzo nel 1934. Ha dei numeri da record: 106 vittorie, 19 pareggi, 7 partite perse. Eppure è sempre stata molto schiva nel rapporto con i media, tanto che emergevano più le sue giocatrici, come la celeberrima Megan Rapinoe (apparsa anche in The LWord Generation Q).
IL DOCUMENTARIO SU NETFLIX
Ma ha deciso di stupirci, consegnando proprio alla più grande piattaforma di streaming da casa, il suo messaggio al mondo. Ha preso parte alla serie “Parola di allenatore”. Un interessante ciclo di documentari in cui vengono raccontate le storie di alcuni allenatori celebri con le loro regole di vita. Una guida per sportivi e non. Ed è proprio nel corso della puntata dedicata alla sua figura che Jill Ellis si lascia andare a un ritratto intimo del suo coming out, che fece solo quando allenava alla UCLA, in occasione dell’adozione di sua figlia.
LE PAROLE DI JILL ELLIS
“Quando iniziai ad allenare cominciai a conoscermi meglio. Sapevo di essere gay. Ma ero sempre attenta a non permettere alle mie giocatrici di sapere qualcosa di me a livello personale. Non ero ancora a mio agio con quella cosa. E se entravi nel mondo dell’atletica come donna, non era una cosa che venisse accettata. Non conoscevo nessuno che avesse fatto coming out e avesse avuto successo. Avevo seguito la storia di Billie Jean King, e sapevo quanto il mondo fosse crudele se eri una donna gay. Non rientrava nello sport.
E poi all’UCLA avevo quasi due ruoli: ero il coach. Ma per il resto vivevo ancora nell’ombra. Era diverso, allora. Fare coming out avrebbe potuto avere conseguenze sulla mia carriera. Perché se alleni, la linfa vitale del tuo lavoro è il reclutamento. Specialmente al college. Durante il reclutamento conosci i genitori. Controlli i loro studi, sei lì per loro. Se ti dichiari apertamente gay, di sicuro i tuoi avversari useranno questa informazione per intralciare il tuo reclutamento.
Quando ero alla UCLA, la mia compagna e io adottammo una bambina. Quando la presi in braccio pensai al fatto di vivere nascosta, e decisi che lei non avrebbe vissuto nell’ombra. Volevo che diventasse una donna forte e indipendente, senza dover rinnegare le sue genitrici. Fu subito chiaro che non avrebbe funzionato. Volevo che questa bambina avesse tutto, e dovetti prendere una decisione. Decisi di essere coraggiosa. A una leader serve coraggio. Deve prendere decisioni difficili.
Presi la decisione e pensai: “Oggi lo dirò alla mia squadra”.
Dopo l’allenamento dissi alle giocatrici: “Ragazze voglio condividere qualcosa con voi. Sto adottando una bambina. La mia compagna e io saremo una famiglia. Volevo condividerlo con voi, affinché lo sappiate da me”.
Mi domandavo come l’avrebbero presa. Le ragazze furono fenomenali. Piene di gioia e felicità. La loro reazione mi diede così tanta sicurezza che pensai: “Adesso vado a dirlo al mio capo”. Mi ero gasata. Quindi andai negli uffici e bussai alla porta del direttore atletico. Fu grandioso, fantastico.
Pensi di tutto, da: “Perderò il lavoro” a: “Non saremo…”. Era davvero troppo. Ma lei valeva…valeva la pena di correre quel rischio. Fu liberatorio. Mi tolse un peso enorme dalle spalle. Ora potevo essere me stessa apertamente.
Mi ha rafforzato sapere che puoi avere una carriera, che puoi essere una forte leader donna e puoi essere anche gay. Con il coming out ho vissuto molti momenti pieni di grandi emozioni, ma quello è stato il migliore. In mezzo al campo con le mie giocatrici”.
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