Oltre i limiti e le definzioni: a tu per tu con Titta, regista di Diario blue

Il Festival Some Prefer Cake di quest’anno è stata un’esperienza di visione collettiva a distanza che ha permesso di conoscere produzioni molto interessanti. “Diario di blue” di Titta Cosetta Raccagni è una di queste. Un corto d’animazione, poetico che racconta come in un Bildungsroman il percorso di formazione della giovane protagonista che scopre l’amore, la sessualità, la musica e l’impegno sociale. Un’opera delicata e tenera che racconta una delle età più difficili della crescita umana. Ma chi c’è dietro quest’opera? E che cosa ci racconta del suo percorso artistico così sfaccettato da andare da un’opera come “Diario blue” a un progetto come “Le ragazze del porno”? Abbiamo deciso di chiederlo a lei.

L’INTERVISTA

Chi è Titta Cosetta Raccagni?

Sono una persona che non si ferma a un’identità, perciò sono in continua ricerca e trasformazione. Mi riconosco in uno stare fluido, in una ricerca che sia aperta, in un’identità che sia aperta e questo lo faccio sin da quando ero ragazzina, ovviamente allora con meno consapevolezza di ora che ho 45 anni. Questo si riflette nel mio percorso di vita e artistico. Potrei definirmi – se proprio vogliamo usare un’etichetta – una persona queer, nel senso più vero del termine. Una persona che non si identifica e che attraversa sia a livello di ricerca lavorativa che di vita, molteplici esperienze, molteplici linguaggi e anche discipline.

Nella tua bio diffusa in rete ti sei definita “gender fluid”, che cosa significa per te esserlo e in che modo contribuisce al tuo processo creativo e artistico?

Per me significa non identificarmi in un genere che non è né quello femminile né quello maschile, ma è un continuo fluttuare tra inter generi. Non credo neanche in una binarietà nel mondo, solo maschile e femminile, ci sono all’interno infinite sfumature, perciò la mattina mi sveglio e sono in un modo, un’ora dopo sono in un altro e questo è sempre così, nel bene e nel male. Di sicuro mi lascia una continua possibilità di fluire, di essere, sentirmi diversa (parlo al femminile per semplificare, ma potrei anche parlare al maschile) e questo si riflette anche nella ricerca artistica perché non mi accontento né mi fermo a definirmi in un modo.

Come nasce il tuo corto “Diario blue”? Hai mai pensato di portarlo nelle scuole?

Nasce dall’esigenza mia di ripercorrere quel momento della mia vita di adolescenza e proprio perché in quel momento mi domandavo chi fossi, che cosa desiderassi, in una maniera che nei primi anni 90’ era molto più complicata di ora e ha portato con sé parecchia sofferenza, parecchi dubbi e una tendenza a rientrare nella normalità, nella normatività. Volevo ripercorrere un mio percorso vent’anni dopo e capire come quelle domande adesso siano anche un mio punto di forza, il chi sono, il mio desidero; oggi invece la fluidità è un qualcosa che rivendico e con cui sto bene.
“Diario blue” nasceva come un’istallazione: era progettata come una stanza buia, si entrava uno alla volta, ci si sdraiava su di un lettino e c’era un cd player, tu potevi cliccare sulle varie tracce che ripercorrevano quegli anni, dal 1990 al 93’. C’erano le tracce sonore e nel frattempo sulle pareti nere venivano proiettati i vari disegni. Questa era la prima ideazione. Dopo ho voluto trasformarla in un film perché comunque mi piaceva l’idea di portarla in giro velocemente e di avere una fruizione anche più percettiva possibile. L’ho portato nelle scuole e ho avuto bellissime esperienze e lo vorrei fare di più, ma viene abbastanza osteggiato. Ho incontrato qualche difficoltà a inserirlo anche a livello organico, con qualche professore.

In quali scuole l’hai portato? Che risposte hai avuto da parte dei ragazzi e dei professori?

Inizialmente in Toscana, perché il progetto era nato a Lucca. Poi a Milano in diverse scuole, e a Napoli. Con i ragazzi è sempre stata un’esperienza molto bella perché è un film in cui ci si riconoscono tutti a prescindere dall’identità di genere o dall’orientamento sessuale. Tutti i ragazzi adolescenti ci si riconoscono e vengono invogliati a parlare di sé. È molto bello. Loro colgono la genuinità di questo lavoro e si sentono liberi di poter parlare. Naturalmente ho riscontrato una differenza tra un liceo classico al centro di Milano che storicamente è sempre stato molto schierato e invece una scuola tecnica della provincia. Però, nonostante questo, la voglia dei ragazzi e delle ragazze è di confrontarsi e parlare apertamente. Mi piacerebbe portarlo di più nelle scuole, ma non è così semplice.

Secondo te questa mancanza di semplicità è dovuta alla tematica lgbtq?

Sì, sicuramente.

Hai realizzato il progetto “Le ragazze del porno” com’è visibile dal trailer online, a che punto si trova ora? Avete realizzato il film che avevate in mente?

Si è sciolto già da tre anni, è un progetto che abbiamo deciso di interrompere prima che realizzassimo l’idea di tutti i corti. Non è stato concluso per vari tipi di problematiche legate alla produzione, alla distribuzione di opere pornografiche in Italia. Però devo dire con orgoglio che quell’esperienza è stata la prima nel nostro Paese. Ci abbiamo messo la faccia, ci siamo prese tanti insulti sessisti, ma non è stata una battaglia invano. Ha sdoganato e aperto in Italia tutta una serie di produzioni dal basso di materiale indipendente di un certo tipo, diverso da quello mainstream che viene propinato dai portali, dalle multinazionali del porno. Se guardi in giro ora è un fiorire di Festival indipendenti con un linguaggio pornografico. Alla fine devo ritenermi comunque contenta nonostante la frustrazione e le difficoltà. È servito. Fossimo state in Francia o Svezia avremmo concluso il progetto.

Qual è il tuo rapporto con la tua sessualità e cosa o chi ti ha aiutato ad averne consapevolezza e avere un rapporto con essa così libero?

È una ricerca molto aperta nella quale anche io partivo da immaginari che poi mi sono accorta erano comunque limitati. Ho attraversato diverse esperienze sensoriali, fisiche come il bondage, ho attraverso il bdsm, ma senza mai fermarmi dentro e anche in questo caso senza mai identificarmi con qualcosa. Ho sempre attraversato le esperienze per capire qualcosa di me. Io penso che questo approccio di capire ogni volta quali siano i tuoi limiti ti aiuti ad aprirti, poi magari ti spaventi e ti chiudi, però è un continuo confronto con sé stessi che aiuta ad andare avanti, ad aprire la propria visione, e a capire che non c’è distinzione fra mente e corpo. Tutto è un’esperienza in cui siamo coinvolti. Ciò che tu impari a sentire con il corpo si riflette su ciò che tu pensi, siamo un tutt’uno. Purtroppo siamo occidentali e siamo stati abituati a inutili dualismi, che però probabilmente vanno scardinati per ciò che riguarda la sessualità.

Che cos’è “Pornopoetica”?

È un progetto personale che porto avanti con la mia compagna, Barbara. Parte dall’esperienza di ragionamento, da un’indagine sull’immaginario del linguaggio pornografico sulla possibilità di scardinare un immaginario molto stereotipato, molto binario, etero, semplificato. Pornopoetica parte da quel concetto però si sviluppa in uno stile, in una ricerca molto più vicina a me, mescolando l’arte visiva con quella perfomativa, con una ricerca che tende ad andare oltre il pornografico. In realtà, proprio nell’ultimo lavoro che si chiama “Pleasure rock”, abbiamo fatto una prova studio in un Festival in Slovenia, stiamo facendo un discorso diverso che si sgancia dalla pornografia, una produzione molto più vicina ad Audre Lorde, se vogliamo recuperare un nome fondamentale. Quindi più ragionando sulla potenza dell’erotico, il suo potere trasformativo. La ricerca va in una direzione di relazione tra l’umano e la materia, tra il nostro corpo, ciò che siamo noi e la materia del mondo. È un indagine che si discosta da un’idea antropocentrica. Si discosta dal piacere, dall’erotismo, come possibilità umana, per andare invece verso un’ideale panerotismo, perciò una forza che unisce il tutto. Pornopoetica parte da quel concetto e va in un’altra direzione che si rifà più alle filosofie di Paul Preciado, Donna Haraway, Rosi Braidotti, un’idea di post umano che non vuol dire fine dell’umano, ma trasformazione verso un’attenzione non solo a noi stessi ma alle relazioni con ciò che ci circonda. Pleasure Rock, che è l’ultimo capitolo di Pornopoetica, è una ricerca che non si focalizza sul piacere. Ad esempio abbiamo fatto questa performance dove noi lavoriamo con le rocce, ci siamo noi in un’ambiente naturale, sdraiate sulle rocce, in una ricerca nello stare, nel raccontare, cercare di creare una connessione, una relazione, una intrazione con la materia del mondo, togliendoci da una visione antropocentrica dove siamo sempre noi al centro. È ancora in corso questa ricerca.

Che cos’hai in cantiere per ora?

In questo momento siamo focalizzate su Pleasure Rock. Sto studiando un video da realizzare.


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