Caccia all’omo: il libro inchiesta che svela l’omolesbobitransfobia dell’Italia

Venerdì era (virtualmente) a Cagliari a presentare il suo libro “Caccia all’omo” nel Festival del Cedac Sardegna “Legger_ezza” incentrato su “Discriminazioni di genere, violenza e bullismo”; domenica era ai Diversity Awards a ricevere il premio nella categoria “Miglior articolo periodici”, per il suo reportage sull’omolesbobitransfobia che nasce proprio come articolo su l’Espresso; insomma Simone Alliva non si ferma mai. Con il suo saggio è riuscito ad attraversare l’Italia da Nord a Sud fotografando un Paese che non ha ancora fatto pace con la “diversità” e in cui si esprimono conflittualità interne ed esterne al movimento lgbtq. “Caccia all’omo” è un libro potente, spudorato, che non ha timore di dire la verità, anche quella scomoda per tutte le parti coinvolte. Ma da dove arrivano i dati analizzati nel libro? Come nasce? Ce lo racconta in quest’intervista.

L’intervista

Domenica hai vinto il Premio Diversity Media Awars che ogni anno premia chi si è distinto/a nella rappresentazione e comunicazione della diversità, che effetto ti ha fatto ricevere il premio? Te l’aspettavi?

No, non me l’aspettavo, anche perché non lo sapevo. L’inchiesta è uscita a febbraio, quindi è passato diciamo più di un anno. È stato bello perché comunque Diversity Media Awards è qualcosa che tutti noi seguiamo. Facendo questo lavoro, la soddisfazione che hai è in chi ti legge, i messaggi che ricevi, la reazione della comunità che racconti; però ogni tanto anche queste cose qui fanno piacere. È stata una bella soddisfazione.

Come nasce “Caccia all’omo”?

Il libro nasce da un’inchiesta pubblicata sull’Espresso, che poi è quella che appunto ha vinto il premio. Dopo che abbiamo pubblicato quest’inchiesta a febbraio 2019, io ho girato l’Italia perché le associazioni mi chiedevano di parlarne. È stata una situazione assurda perché da febbraio fino a tutto giugno/luglio andavo sempre in giro a parlarne. Tutte le volte, in questi incontri, c’era sempre qualcuno che mi raccontava una storia, qualcosa che gli era capitato o che aveva visto. Da lì mi sono detto: “Tutte queste storie, tutte queste situazioni, forse sarebbe bello raccoglierle in una inchiesta molto più importante”. Non poteva essere un’inchiesta sulla carta o online, perché se io al direttore avessi detto: “Facciamo un’altra inchiesta”; mi avrebbe risposto: “Sei pazzo!”. Lo spazio è quello. Ho pensato a un libro, poteva offrirmi la dimensione giusta, poi tramite Fandango è nato “Caccia all’Omo”.

Com’è andato il libro in termini di vendita e risposte del pubblico?

Molto bene, nonostante la pandemia. “Caccia all’omo” doveva uscire a marzo, poi naturalmente è successo tutto quello che è successo,  e tutti hanno avuto le uscite bloccate. Quando si è aperto un po’ uno spiraglio, abbiamo rimandato l’uscita a giugno. Penso di aver girato nuovamente tutta l’Italia per presentare il libro finché non hanno richiuso. C’è stata una bella risposta, sta andando molto bene. Sono soddisfatto e anche la mia casa editrice lo è.

Simone Alliva, autore di "Caccia all'omo"
Simone Alliva, autore di “Caccia all’omo”

Come hai trovato le fonti per “Caccia all’omo”?

Molte notizie e storie che trovi nel libro mi sono capitate proprio per caso. Ad esempio io andavo a presentare l’inchiesta pubblicata sull’Espresso a Livorno e a un certo punto qualcuno si alzava e diceva “A me è capitato questo”. Oppure a Pordenone ricordo che una signora mi ha preso da parte e ha incominciato a raccontare la sua storia. Tutti questi contatti sono capitati perché evidentemente c’era qualcuno che diceva magari “lì si parla di omotransfobia, vado ad ascoltare” e poi si raccontava. Spesso quando ti individuano come giornalista poi le persone ti contattano per raccontarti quello che gli succede. Erano storie che non erano mai state raccontate perché non avevano raggiunto la cronaca.

Nella tua inchiesta hai esaminato molto bene la questione “omosessuali che votano a destra”. È un argomento molto interessante perché se ne parla poco e si dà per scontato che un omosessuale voti a sinistra; però in realtà ci sono anche omosessuali che votano a destra storicamente, aveva scritto un libro a riguardo Marco Fraquelli, “Omosessuali di destra”. In “Caccia all’omo” hai raccolto alcune interviste a ragazzi omosessuali di destra (aderenti a Casa Pound, Fratelli d’Italia); una delle costanti era il loro porre la questione lavorativa (intesa come assenza di lavoro) al centro della loro scelta, lasciando in secondo piano la loro vita affettiva. Come dire: “non è un problema se non ti puoi sposare e avere dei diritti in quanto lgbtq, l’importante è che tu abbia un lavoro”. Non pensi che questa sia una sconfitta anche della sinistra che invece storicamente era la forza politica più vicina ai lavoratori?

Sì, è proprio così nel senso che effettivamente questi ragazzi mettono in secondo piano quella che è la conquista dei diritti civili. Mi diceva giustamente un ragazzo: “io non posso permettermi alla gestazione per altri, all’utero in affitto, perché oggettivamente servono dei soldi per avere un figlio e se non ho soldi per pagarmi l’affitto, figuriamoci se ho dei soldi per pensare a fare una famiglia”. Per quanto riguarda il matrimonio egualitario sono anche scelte di classe sociale differente. Una cosa che io ho notato è che chi ha meno in genere, o comunque chi sta in una situazione economica non rosea, si appassiona difficilmente alla questione dei diritti civili e dei diritti lgbt. Passano in secondo piano. È anche una questione culturale naturalmente.

Copertina di Caccia all'omo di Simone Alliva

Quali sono gli ostacoli maggiori che hai dovuto affrontare realizzando il tuo reportage “Caccia all’omo”?

Sicuramente quello di restare fedele a tutto quello che mi diceva chi si raccontava e soprattutto di cercare in qualche modo di mantenere la privacy di queste persone, cercare di non esporli troppo e raccontare queste storie in maniera non pietistica. Non volevo si dicesse: “poverini”. C’è sempre questa narrazione pietistica della comunità Lgbt aggredita, in realtà c’è proprio una violenza che colpisce le persone lgbt e loro possono anche provare a rialzarsi ma se poi la società continua a colpire, è un po’ difficile. Cercare di non usare una narrazione pietistica nel racconto, questa è stata la cosa più  impegnativa. 

Anche se leggendo la tua inchiesta, per quanto tu sia stato scarno nel descrivere le situazioni, non si può non empatizzare con le persone che subiscono quelle aggressioni, perché certe vicende sono come un pugno in un occhio per la violenza con cui si riverberano leggendole. 

L’importante per me era non aver raccontato una parodia di quello che succede perché spesso quando leggiamo pure la cronaca di attacchi omofobi, c’è sempre un po’ questa cosa del “poverini”. Io volevo attenermi alle cose reali. Poi è stato pesante anche ascoltare queste storie perché tu sei lì, che ascolti quello che è successo e loro a un certo punto, giustamente, ti chiedono “cosa posso fare?”, e tu dici “non lo so”, perché facciamo il nostro mestiere che non è quello dei politici o poliziotti, quindi dici “non lo so. Posso solo raccontare quello che mi stai dicendo”. C’è anche una sensazione di disarmo di fronte a queste persone, che è molto forte.

Simone Alliva per la campagna #stophivstigma durante la Giornata mondiale per la lotta contro l'AIDS

Oggi è la Giornata mondiale per la lotta contro l’AIDS, tu partecipi alla campagna #stophivstigma, ce ne vuoi parlare? Perché hai deciso di aderirvi?

Me l’ha chiesto l’Asa di Milano perché io tutti gli anni in genere scrivo sempre un articolo di informazione sulla questione dell’HIV e AIDS. Mi sono reso conto negli anni, scrivendo questi articoli e informandomi, che io stesso ero molto ignorante prima sulla questione della sieropositività, dello stigma, del fatto che esista la prep, esistano tanti modi per prevenire il virus dell’HIV. Mi è sembrata una campagna molto ben fatta, interessante, che dice una banalità (“non si deve stigmatizzare l’HIV”) che però non conosciamo perché siamo rimasti ancora indietro. Ho partecipato insieme a tanti altri e altre, mi ha fatto piacere, è sempre un modo per fare informazione anche questo.

Targa commemorativa delle vittime lgbtq del nazismo vandalizzata a Varese
Targa in memoria delle vittime lgbtq del nazismo a Varese

A Varese è stata vandalizzata la targa commemorativa delle vittime lgbtq del nazismo, a Roma invece la panchina arcobaleno di Piazza Gimma, tutto in una settimana, che idea ti sei fatto su queste distruzioni dei simboli arcobaleno?

Sono semplicemente quello che racconto in “Caccia all’omo”: lo spirito del tempo è questo. La distruzione dei simboli ha sempre un significato ben preciso, un simbolo forte come quello del triangolo rosa a Varese è sempre frutto di un sentimento che è cresciuto nel Paese. Guarda caso questi episodi così palesi (imbrattare una panchina arcobaleno, distruggere il simbolo che rappresenta i triangoli rosa) avviene sempre in un tempo in cui si parla molto di questioni lgbt. Per quanto abbiamo parlato tantissimo di covid, un altro argomento che si è fatto spazio era la legge Zan. Si è parlato abbastanza di persone lgbt e quando c’è questa visibilità c’è sempre un certo sentimento di odio che viene fuori e poi si manifesta nella distruzione dei simboli.

Panchina arcobaleno di Piazza Gemma a Roma vandalizzata
Panchina arcobaleno di Piazza Gemma vandalizzata

Tu ormai sei un punto di riferimento -come si evince dal libro “Caccia all’omo” – per persone lgbt che vogliono denunciare l’omolesbobitransfobia subita, durante il lockdown ti è sembrato di avere un incremento di testimonianze? Per le tue fonti come ti è sembrato che la comunità LGBTQ italiana vivesse la quarantena?

Malissimo, l’ho anche raccontato in un articolo sull’Espresso durante il lockdown. Moltissime persone che stavano male sono state peggio perché l’omofobia si sposta dalle strade alle quattro mura di casa: ragazzi e ragazze che magari hanno quel momento di libertà andando a scuola o frequentando tutti gli spazi sociali per gli adolescenti, sono state preclusi naturalmente. Si sono ritrovati chiusi in casa in una situazione di forte repressione, se non hanno fatto coming out. Se invece l’hanno fatto e i genitori non li accettano, vivevano una situazione di discriminazione molto forte. Ci sono stati casi di ragazzi che venivano picchiati dai genitori costantemente in casa e poi hanno denunciato. Però nel frattempo, come fai? Devi stare chiuso in casa. 

Nel libro racconto la storia di Alex, questo ragazzo trans che a 18 anni viene sbattuto fuori casa, durante il lockdown ha perso tutto quanto. Lui mi raccontava: “Avevo ricostruito finalmente una vita, avevo trovato finalmente un lavoro, e poi ho perso tutto quanto”. Da Milano la sua proprietaria di casa muore, lui si ritrova di nuovo in mezzo a una strada, perde il lavoro. È stata molto più forte l’omotransfobia nel periodo del lockdown, considerando soprattutto il fatto che non ci siano delle strutture che accolgano questi ragazzi e ragazze che scappano da casa o vengono buttati fuori, e cercano un riparo. In lockdown come fai? Anche le case rifugio si sono trovate in difficoltà.

A proposito proprio di Ale, mi aveva colpito molto nel libro “Caccia all’omo” il racconto della transfobia che lui aveva subito in una struttura di accoglienza lgbtq a Roma. Questo evidenzia un problema che c’è all’interno della comunità LGBTQ, cioè a volte le persone trans si ritrovano ad essere isolate, diverse nella diversità, secondo te questo perché?

Ho sempre avuto l’impressione che la comunità trans pur vivendo dentro la comunità LGBTQ, stia un pochino in uno steccato separato da gay e lesbiche. Non c’è informazione neanche all’interno della comunità di accoglienza spesso – ma non sempre – sull’accettare l’altro. Ale raccontava che aveva subito degli episodi di transfobia all’interno di questa casa accoglienza, perché è avvenuto? Ti direi che è una questione culturale. È come se ci fosse sempre un muro tra la comunità lgb e quella “t”. Io tutte le volte che ho fatto le presentazioni dal vivo e guardandomi intorno ho sempre incontrato pochissime persone trans e mi sono chiesto “chissà come mai”. Forse perché spesso magari la persona trans non sempre si identifica con un orientamento sessuale che può essere quello gay e lesbico, magari con quello eterosessuale e quindi si sente meno attratta da certi eventi. Però penso che non sia solo questo. Penso che sia anche una responsabilità della comunità di coinvolgere tutte quante le diversità che la compongono.

Nel tuo libro hai affrontato anche il tema dell’odio in rete nel suo aspetto controverso, sia la difficoltà a legiferare su di esso, che la desensibilizzazione oggettiva per cui la diffamazione a mezzo internet viene depenalizzata. Come giornalista che si occupa di tematiche lgbtq che esperienza hai avuto dell’odio in rete?

Io mi ero già occupato di odio in rete tempo fa quando Tommaso Cerno che era il mio ex direttore, poi passato a Messaggero Veneto, fu minacciato di morte. Mi ero incuriosito perché mi ero chiesto: “Com’è possibile che non si arriva mai al twitter, a chi ha scritto quelle cose in rete?” C’è un problema che io racconto nel libro “Caccia all’omo”, per cui è molto difficile arrivare a questi account. Per la mia esperienza personale tutte le volte che scrivo qualcosa che riguarda questioni lgbtq ricevo insulti, anche in privato, pagine dove mi si dà del satanista, di tutto e di più. Io reagisco in maniera molto lucida: non me ne frega nulla, non leggo mai i commenti quando percepisco che possono essere di insulto gratuito, blocco direttamente oppure stacco. Ho i miei momenti in cui stacco internet per due settimane durante l’anno, perché un po’ di detox fa sempre bene. Questa è la mia reazione. Ma quel capitolo l’ho scritto anche per dire un’altra cosa: internet può essere una scialuppa, nel senso che comunque ti aiuta a collegarti con tantissime persone, conoscere tantissime realtà, denunciare anche. Non è che l’odio in rete nasce in rete – soprattutto quello transfobico – è il riflesso di quello reale, non c’è tanta differenza. Personalmente io disconnetto, perché poi la vita fuori è molto più interessante, quindi preferisco sempre disconnettermi e me ne frego, a meno che non sia qualcosa di molto pesante. In quel caso allora ci pensi a fare una denuncia, però siccome sappiamo come va a finire, ci pensi un po’ e poi molli, se non in casi estremi. 

Delia Vaccarello
La giornalista Delia Vaccarello, morta il 29 settembre 2019

Spesso in “Caccia all’omo” hai citato una scrittrice per cui ho uno speciale legame affettivo perché con i suoi libri è stata una guida per la scoperta della mia sessualità: Delia Vaccarello. L’hai conosciuta nel tuo lavoro? Qual è il più grande insegnamento che ti ha dato?

Io ho conosciuto Delia come te all’inizio: leggevo la sua rubrica “Liberi tutti” sull’Unità e penso che sia stata l’unica ad avere una rubrica tutta intera dedicata alle questioni lgbtq su un quotidiano nazionale. Dopo di lei nessuno l’ha fatto, con quello stile e con quella capacità di ascolto che dava lei. Delia poi l’ho conosciuta durante la discussione sulle unioni civili e siamo subito diventati amici molto stretti. Lei diceva che io ero suo “nipote” e scherzavamo su questo. Ho tantissimi ricordi. A fine discussione sulle unioni civili al Senato, ritornati a casa propria, ci sentivamo e ci scambiavamo gli articoli, ci confrontavamo. Ho visto una persona di un certo livello, come Delia Vaccarello, che chiedeva a me un parere; una persona molto umile, che aveva voglia di conoscere le persone. Mi chiedeva di tutto, anche cose personali. Una persona unica.

Il ricordo più bello è stato quando hanno approvato le unioni civili al Senato perché Delia – che stava già male – è voluta venire lo stesso ad ascoltare dalla tribuna stampa. Poi siamo usciti a festeggiare e ricordo di Delia al Coming la sera con tutte quelle persone che festeggiavano l’approvazione. Quello che mi ha insegnato è sicuramente di badare molto alla comunità piuttosto che mettermi in ascolto del movimento. Bisogna lottare, scrivere la verità sempre su tutto, bisogna farlo per la comunità che è una cosa diversa dal movimento. La comunità sono quelle persone che davvero non hanno voce, non si sentono rispecchiate dalle associazioni per un motivo o per un altro, spesso anche perché le associazioni in quei paesi non ci sono, e quindi è lì che devi metterti in ascolto e raccontarle. Delia mi ha insegnato soprattutto una grande resistenza. Era una persona molto determinata, resistente. 


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