MOLESTIE SESSUALI E DONNE DI SERIE A E B

Stamattina – 29 settembre 2019 – ho avuto un brutto risveglio. Ero felicemente intenta nella mia lettura de Il fatto quotidiano, quando – ahimè!- mi sono imbattuta nell’articolo del musicologo Paolo Isotta sull’affaire Vittorio Grigolo. 

Facciamo un passo indietro. Ripercorriamo i fatti.

Vittorio Grigolo, tenore di conclamata fama internazionale, è stato sospeso dalla  Royal Opera House di Londra per presunte molestie sessuali. Avrebbe palpato il fondoschiena di una ballerina, nonostante le reiterate sollecitazioni da parte degli astanti, a smetterla (Versione della ballerina, o perlomeno quella che è stata fornita alla stampa immediatamente dopo). A seguito di questa vicenda, il Met di New York ha deciso di sospendere la collaborazione con il tenore fino alla verifica dei fatti; invece La Scala di Milano ha confermato le date del tenore. Grigolo, nei giorni seguenti, ha fornito la sua versione, secondo la quale si tratterebbe di un semplice malinteso, uno scherzo finito male. Avrebbe toccato ironicamente una pancina di gommapiuma che la ballerina portava come costume di scena.

Questi i fatti per quanto concerne l’affaire Grigolo, riguardo al quale credo in ogni caso che sia saggio applicare una sana e greca epoché (sospensione del giudizio) fino al compimento delle opportune verifiche e indagini che già stanno compiendo a Londra. Infatti la mia perplessità non ha nulla a che fare con le vicende personali del tenore. 

Ma in che modo si inserisce l’articolo del Fatto quotidiano in tutto questo? È presto svelato! Sull’edizione di oggi, si può leggere l’articolo: 

Grigòlo molesto? Sì, soprattutto nel cantare. #METOO all’opera

Il musicologo Paolo Isotta, non fa altro che artamente spostare l’attenzione dai fatti alle – a suo dire – scarse doti canore del tenore. Ma andiamo nel dettaglio. Afferma: 

“Io non vedo, in fondo, perché un artista, che è un libero professionista, debba essere escluso dal manifestare la sua arte perché i suoi costumi erotici sono volgari o censurabili. Allora facciamo roghi sulla pubblica piazza delle poesie di Verlaine e Rimbaud, delle opere di Palazzeschi e Pasolini. Non mi pare che il teatro sia stato mai un mondo di educande, e accorgersene oggi è solo ridicolo. Salvo, ripeto, quando si manifestino lati odiosi. E sarebbe ancora più bello se la stessa sorveglianza si estendesse al mondo della pubblica amministrazione e a quello dell’Università: ove comportamenti di molestie si configurano anche sotto il profilo penale”.

Per cui – secondo il suo assioma, mi corregga se interpreto fallacemente – da quel che si evince: A teatro dato che – a suo dire, non ci sono educande, -salvo non precisati “lati odiosi”, bisognerebbe lasciar perdere qualsivoglia accusa di molestia sessuale. Voi penserete: “ma no, dice questo perché ritiene che si sia trattato solo di una pancina di gommapiuma e di uno scherzo”. L’avete pensato, vero? Ma sì, l’ho pensato anche io, visto la stima che ho del giornale sul quale ha firmato il suo pezzo. Ma ci sbagliavamo, perché poi precisa più avanti.

“Impedirgli di cantare perché avrebbe messo una mano in culo a una corista mi pare una superfetazione calvinista. Ma per ben altri motivi bisognerebbe vietargli l’attività del canto, o quanto meno far sì che lui paghi un cospicuo biglietto a tutti coloro che vanno ad ascoltarlo”.

Avete letto bene? Tradotto senza calvinismi: se metti una mano in culo a “un’educanda” teatrale va bene; l’artista va sospeso solo se è una pippa. Se invece lo fai nella pubblica amministrazione o nell’Università la molestia si configura sul profilo penale. Insomma, care donne dello spettacolo, se lavorate in un teatro le “mani in culo” fanno parte del cachet, perché voi non siete delle educande!

Per chi avesse dubbi sulla definizione di educanda, rimandiamo al bel Sabatini Colletti che ci dice che l’educanda è “una fanciulla che viene educata in un istituto religioso o in un collegio”. O per antonomasia, ragazza pudica. 

E chi è pudico? Sempre secondo il Sabatini Colletti è: “chi nutre sentimenti di pudore, di pudicizia: donna p.; che non oltrepassa i limiti della decenza, del decoro”. 

Ça va sans dire, che le donne del teatro, non essendo educande, oltrepassano i limiti della decenza e del decoro. In che modo? Chiederete voi. Francamente, non mi è dato saperlo. Ho amiche teatranti o ho conosciuto persone in quell’ambito per lavoro, e – a quanto mi risulta – nessuna di loro si ritiene priva di pudore. Anzi, spesso per le tournée lunghe a cui sono sottoposte, davvero fanno la vita di educande!

Ma torniamo a noi. Più leggevo questo articolo più ero esterrefatta. 

A parte inutili tecnicismi, voglio ricordare che in Italia, si ritiene reato di violenza sessuale «qualsiasi atto idoneo, secondo canoni scientifici e culturali, a soddisfare il piacere sessuale o a suscitarne lo stimolo, a prescindere dalle intenzioni dell’agente, purché questi sia consapevole della natura oggettivamente ‘sessuale’ dell’atto posto in essere con la propria condotta cosciente e volontaria». Proprio per questo ci sono stati casi di condanna anche per un bacio sulla guancia (Cassazione, sentenza numero 18679/2016). 

Non è precisato: sentenza valida per tutti tranne i teatranti. Non c’è un distinguo dovuto alla professione o al genere sessuale o alla sua identità o al suo portfolio esperienziale. 

Non credo che sia necessario uno studio approfondito per comprendere che il corpo di una persona appartiene ad essa e a Dio (se ci crede), e NESSUNO può arrogarsi il diritto di metterle un solo dito addosso se non è gradito. Indipendentemente da qualsivoglia professione lei svolga, da qualsiasi comportamento abbia nella sua vita privata.

Non capisco perché esistano ancora distinzioni fra donne educande e non, come se ci fosse un bollino: serie A e serie B. E chissà, forse ci sono anche le donne di serie C, D o F. 

Quando ero giovane mi capitò di assistere a una scena che rimane tuttora incisa nella mia memoria. 

Fuori dal supermercato dell’Auchan vidi una donna afroamericana che percorreva la via del ritorno con la sua spesa. Davanti a lei si frappose un uomo, presumibilmente cinquantenne o similari, la bloccò e le ingiunse di andar via con lui per avere rapporti sessuali, il tutto condito da epiteti irripetibili e strattonamenti. La donna, sola, spaventata, cercò di divincolarsi, ma l’uomo insistette adducendo come motivazione “sei una prostituta, cosa ti costa?”. Si fermò solamente quando intervenni io. 

Per quell’uomo, quella donna afroamericana poteva essere solo una prostituta, pertanto era suo “dovere” assecondare i suoi istinti in qualsivoglia momento. Non era importante per lui se lo fosse o meno, se avesse una vita o meno. Nella sua mente era una prostituta, una donna non di serie A o B, ma ancora peggio, di ultima categoria, quella delle dimenticate, e il suo corpo era solo ad uso e consumo delle altrui voglie. 

Perché fanno questo le categorizzazioni, i distinguo, le etichette: tolgono dignità, pezzo dopo pezzo, fino all’apice, al gradino più basso, in cui tutto è consentito.


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