Era un pomeriggio d’inverno della mia adolescenza, come al solito scavavo fra gli scaffali della biblioteca del mio paesello alla ricerca di qualche nuova lettura. Era uno spazio piccolo, bastava uno stanzone per riempirlo con tutti i libri, ma presentava qualche piccola perla, ordinata chissà da quale impiegato sensibile alle tematiche glbt, in anni e in un luogo in cui ancora ci si vergognava di fare certe letture. La trovai lì, per la prima volta, un volume dalla copertina scura, un titolo intrigante in rosso: Gli svergognati di Delia Vaccarello, vite di gay, lesbiche e trans.
Divorai quel libro in una serata, bevvi ogni singola storia, felice di scoprire che c’erano tante persone come me, che avevano vissuto esperienze analoghe, che mi comprendevano meglio di quanto io stessa riuscissi a fare. Ero così giovane allora! Vivevo quegli anni adolescenziali sentendomi irrimediabilmente diversa e sola; avevo visto le mie amicizie dell’infanzia distruggersi quando ebbi il coraggio di dire che ero lesbica. Avevo sentito sulla pelle il rifiuto, il disprezzo, la colpevolizzazione e nonostante la mia forza esteriore, la mia sfacciata corazza, dentro di me portavo i segni di ogni parola, ogni gesto, ogni rapporto sgretolato, irrimediabilmente compromesso. Il libro della Vaccarello fu un balsamo sulle mie ferite. C’era tutto in quelle storie: il rapporto con Dio, con la famiglia, con l’amore, con sé stessi e il mondo, il dolore e la rinascita. C’erano tante parti di me, che componevano i racconti di uomini e donne che Delia Vaccarello aveva incontrato nei suoi anni, intervistandoli, ascoltandoli senza pregiudizio.
“E giurai che avrei portato ovunque la speranza, che avrei lottato perché gli omosessuali riuscissero a mantenerla sempre viva dentro di loro, che della speranza sarei diventato l’apostolo. La speranza in un Dio che vive in ogni forma di amore”.
Questa è solo una delle tante citazioni che mi segnai nel mio quadernetto delle letture. Erano anni in cui il termine nativi digitali non si sapeva nemmeno cosa fosse, il computer era ancora un bene di lusso che si condivideva con tutta la famiglia. Così, annotavo pedissequamente tutte le frasi che mi colpivano durante la lettura. Le storie de Gli svergognati sono storie vere, di cammini difficili e talvolta pericolosi, in un’epoca in cui non esistevano tanti strumenti per comprendere la diversità, ma soprattutto non era un argomento di cui si discuteva granché. Delia Vaccarello ha avuto la forza e il coraggio non solo di vivere la sua sessualità alla luce del sole, ma anche di essere l’aedo della comunità Lgbtq, parlando dalle pagine dell’Unità nella sua rubrica “Uno, due, tre..liberi tutti”, o con i suoi libri nel corso degli anni, sotto forma di moltecipli declinazioni. Aveva uno sguardo acuto, attento, privo di ipocrisie e dogmatismi, così encomiabilmente lontana dalle grida a cui costantemente siamo sottoposti ora.
Mi ricordo quando lessi che al Gay Pride di Roma, durante le dieci giornate culturali pre sfilata, ci sarebbe stato anche il suo intervento insieme alla giornalista Barbara Alberti per la presentazione della raccolta “Principesse azzurre. Racconti d’amore e di vita fra donne” (2003). Riuscii a risparmiare i soldi del mio lavoro extra scolastico, e andai a gustarmi ogni incontro. C’era un ambiente così piacevole e accogliente, e io – la ragazzina isolata che era andata fin lì, tutta sola, per prendere parte al Gay Pride – mi sentii coccolata da ogni persona che conobbi. Ricordo ancora la sera in cui l’ascoltai, la platea era gremita, tutti l’avevano letta almeno una volta, e l’ascoltavano affascinati. Parlò senza risparmiarsi, ma soprattutto mi ricordo ancora, dopo un decennio, quando disse: “La prima maschera la mettiamo quando ci innamoriamo per la prima volta. Ritorniamo a casa e la indossiamo per nascondere il nostro amore”. Mi colpì nella sua dolorosa verità, come sapeva fare lei. Era vero: quando ti innamori per la prima tutto cambia e nella consapevolezza dell’impossibilità di dire quell’amore, c’è lo spessore della nostra maschera.
Delia Vaccarello aveva il dono della scrittura. Uno stile anaforico, ricco di subordinate e similitudini. Riusciva a raggiungere la pancia del lettore, a rievocare un universo emotivo complesso e allo stesso tempo immediato. Le sue parole entravano in te e permanevano, nel tempo. Mi sento fortunata per aver avuto un’adolescenza in cui ho potuto scoprire voci come la sua. Mi rendo conto che ora come ora, questo discorso possa apparire a taluni enfatizzato, perché ormai viviamo una società in cui un tweet sembra un trattato di sociologia, un titolo di giornale sembra un libello antropologico, e tutto sembra una reiterata e vittimistica ricerca di attenzioni. Ma la verità è che nell’epoca in cui sono cresciuta io, senza google, smartphone, social network, quando, adolescente, scoprivi di essere lesbica avevi paura, perché eri sola. I libri erano il mio mondo di decodificare il reale, ma di letture omosessuali non ce n’erano granché in giro. Ecco perché è importante che ci sia una pluralità di voci nel panorama editoriale; ecco perché è importante che nelle biblioteche pubbliche, nelle scuole, si possano leggere libri di ogni colore e forme, che accolgano una molteplicità di visioni. Alla mia epoca, di libri omosessuali nella biblioteca del paese, ce n’erano una decina, ed ero anche fortunata!
Questa coraggiosa giornalista ha abbracciato la causa lgbtq a 360°, senza risparmiarmi mai, in maniera tranciante ed onesta, senza divismi, ma con lo spirito giornalistico di chi racconta il reale, introducendo prospettive altre.
Mi commuove il pensiero della sua morte, perché porta con sé un sentimento di tristezza e vuoto per tutte le realtà che non potrà più raccontare. Siamo tutti più poveri oggi.
“L’amore, io, vorrei urlarlo. Vorrei urlare il mio bisogno d’amore per tutte le volte che non l’ho fatto, per tutte le volte che l’abbandono mi ha preso alla gola, che ho vissuto da solo, come una piccola vita incustodita. E sono sprofondato nel silenzio”.
Lei, è riuscita ad urlarlo quell’amore, per tutti.
Grazie Delia.
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